Matteo Petracci, I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista. Donzelli Editore, 2014
recensione di Girolamo Digilio
Talvolta un titolo ad effetto tradisce i veri contenuti del libro: nel nostro caso una battuta che vorrebbe essere accattivante per il lettore (“I matti del Duce”) non è all’altezza della profondità dell’analisi e della ricchezza di dati con i quali l’Autore ci dà, per la prima volta, un quadro esaustivo della pratica dell’internamento in manicomio come strumento di repressione politica nell’Italia fascista.
In particolare egli descrive con accuratezza lo stretto intreccio fra cultura del tempo, “scienza psichiatrica”, antichi pregiudizi, motivazioni ideologiche e medicalizzazione del dissenso nella repressione politica e documenta la responsabilità di molti psichiatri, soprattutto direttori di manicomio, nella attuazione di spietati interventi di internamento che molto spesso escludevano i dissenzienti dal contesto sociale per tutta la vita.
Dalla lettura di 44.540 cartelle di antifascisti schedati nel Casellario Politico Centrale del Ministero degli Interni, curato da Adriano Del Port per i Quaderni dell’Associazione Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (A.N.P.P.I.A.) risultano 475 casi (1,06%) di internamento psichiatrico. Dei 475 internati del C.P.C. 122 (più del 25%) sono deceduti in manicomio, con una mortalità assai più elevata rispetto a quella dei ristretti in carcere o al confino.
L’A., sulla base di una indagine campione da lui eseguita sugli Archivi di Stato di Bologna e di Macerata (che riportano i dati di antifascisti non schedati nel C.P.C.) ritiene che il numero potrebbe essere aumentato di alcune centinaia di casi. Le pratiche di esclusione e di internamento trovavano la loro legittimazione in una diffusa cultura che traeva la sua origine nella scienza positiva divulgata con successo dal Lombroso il quale teorizzò, fra l’altro, il rapporto fra follia, criminalità e tendenze politiche sovversive e libertarie.
Il tutto trovava la sua espressione conclusiva nella “pericolosità sociale” del malato mentale e nel “pubblico scandalo” delle sue manifestazioni, affermati già dalla legge del 1904 e perpetuatisi fino ai giorni nostri. Nel fascismo queste premesse si saldano con la teoria che anche “utopisti, teorici e inconcludenti” fossero folli. In un’ulteriore formulazione (“biopsicologia del fanatismo marxista”) si affermava il rapporto fra “soggetto mentalmente inferiore ed incolto” e politica marxista. Un altro dato significativo è rappresentato dalla sostanziale continuità fra fascismo e governi precedenti non solo delle culture, ma anche delle normative che regolavano l’internamento e la gestione delle strutture manicomiali.
In questo quadro si sottolinea il ruolo decisivo degli psichiatri i quali, disponendo in virtù della legge 1904 di un potere dispotico e quasi sconfinato nella decisione dell’internamento sulla base di incontrollate procedure d’urgenza, collaborano attivamente alla repressione dei “comportamenti antisociali del malato di mente”.
La psichiatria manicomiale funge così sempre di più da “ancella della polizia” e i manicomi diventano contenitori di quanti, malati o devianti sociali, disturbano l’ordine pubblico e “scarico” dei ricoveri per vagabondi, degli ospedali e delle carceri. L’autore descrive inoltre molto bene il processo di progressiva eliminazione delle garanzie dello Stato di diritto ancora presenti nel codice Zanardelli (1889) nel quale il delitto politico era considerato non lesivo del diritto comune e, di conseguenza, non veniva trattato penalmente come un illecito che intaccava valori universalmente riconosciuti, ma come un reato che si rivolgeva contro l’organizzazione politica di un determinato Stato in un determinato momento.
Questo processo ebbe una decisiva accelerazione nel corso della prima guerra mondiale in nome del “bene supremo della Patria” e continuò negli anni del regime fascista. Intanto si disegnavano intorno al dissenso politico i tratti della devianza sociale. La lotta politica viene a coincidere così con la “lotta alla degenerazione della razza” attraverso la selezione sociale, la selezione eugenetica e l’esclusione sociale mediante l’internamento in manicomio.
Pazzi, criminali, prostitute e ”parassiti” in genere sono i degenerati. A questi vanno aggiunti, grazie alla psichiatrizzazione del dissenso, i dissenzienti politici che con la professione di ideologie avverse al regime rappresentano una minaccia per l’ordine costituito.
Già negli anni precedenti all’approvazione del Codice penale del 1930 erano state formulate ipotesi sull’adozione di misure a carattere eliminativo per chi fosse stato dichiarato irrecuperabile dal punto di vista del reinserimento sociale. Nelle pagine centrali del libro viene messo in luce con grande chiarezza ed efficacia l’enorme influsso sulla cultura e sulla pratica psichiatrica delle teorie del Lombroso, sostenute e diffuse dai suoi allievi (e illustri studiosi) Leonardo Bianchi, Benigno Di Tullio, Giuseppe Sergi, Luigi Rusticucci, Enrico Ferri i quali sostenevano il diritto della società di difendersi contro chiunque potesse rappresentare un pericolo e il dovere di “eliminare, attraverso forme adeguate, utilitarie ed umane” i “delinquenti” che si mostravano “incapaci di sottostare alla disciplina complessa della vita sociale” (Di Tullio). Il medico socialista (era socialista anche lo stesso Lombroso) Gaetano Pieraccini aveva teorizzato sia il divieto di matrimonio per i “tisici”, i”pazzi”, gli alcolizzati”, gli “epilettici”, gli “imbecilli”, i “grandi delinquenti” sia la sterilizzazione “mediante i raggi X” di quanti venivano dimessi da un manicomio.
Parallelamente a questo processo il numero degli internati in manicomio sale da 12.913 nel 1875 a 39.500 nel 1905, a 62.127 nel 1927 fino a 94.946 nel 1941.
Questo sembra rappresentare anche un indice molto significativo dell’aumentare del disagio sociale e della sofferenza psichica nella popolazione e, nel contempo, della entità del controllo sociale e della espulsione dalla società civile delle categorie più fragili.
Le regole repressive per combattere la degenerazione della razza saranno fissate nel Testo unico delle leggi di PS (1926 e 1931) e comprenderanno l’obbligo di denuncia entro due giorni, da parte di medici ed infermieri oltre che dei famigliari, per malattia mentale o grave infermità psichica, intossicazione da alcool o da sostanza stupefacente, sifilide e tubercolosi. In questo intreccio di fattori diventa facile e quasi banale trovare le motivazioni per perseguitare anche attraverso l’internamento in manicomio gli oltre 475 dissenzienti.
Anche se non si arriverà agli eccessi dei nazisti, la teoria dell’”igiene della razza” impronterà anche i comportamenti di molti medici e psichiatri. Non si può tacere che queste teorie, che sostanzialmente confermano antichi pregiudizi e comportamenti razzisti anche nei confronti delle persone con disturbo psichico, influenzano purtroppo ancora oggi, anche se in forme molto dissimulate, la cultura di larghi strati sociali e ci spiegano la persistenza nel 2015 di alcune norme (Articoli 133 e 203 del Codice Rocco relative alla “pericolosità sociale”) che influiscono pesantemente sulla pratica psichiatrica e sul destino delle persone con sofferenza mentale: il progressivo smantellamento dei servizi di comunità, la prevalente offerta di istituzionalizzazione in strutture per lo più private, la persistenza degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e, infine, la proposta della costruzione delle cosiddette REMS (Residenze per la Esecuzione delle Misure di Sicurezza) sono la dimostrazione di un drammatico ritardo culturale ed organizzativo che è causa di cronicizzazione e disabilità delle persone con sofferenza mentale oltre che di un enorme spreco di risorse finanziarie per la collettività.
La ricostruzione molto accurata di numerose e storie (circa 60) di internati ci offre, oltre al racconto di toccanti e dolorose vicende umane, un significativo squarcio sull’atmosfera di arbitrio e di violenza nella quale si realizzava un capillare sistema di controllo che andava dal portiere di casa al confidente di polizia, al delatore dell’Ovra, fino al cosiddetto “Tribunale speciale”, emanazione diretta del potere politico attraverso una serie di personaggi delle istituzioni fra i quali non mancavano psichiatri ed infermieri. Fra l’altro le autorità politiche controllavano gli antifascisti internati in manicomio e intervenivano sulla decisione dell’internamento, sulla sua durata e sulle eventuali dimissioni.
Nei capitoli III e IV l’Autore compie una dettagliata e profonda analisi delle condizioni del carcere, del confino e del manicomio (isolamento, regime del silenzio, pratiche intimidatorie e punitive, maltrattamenti e torture, ecc.) cause di turbe psichiche anche gravi che giustificavano l’internamento psichiatrico.
In conclusione il libro di Matteo Petracci è un’opera di grande respiro che attraversa il periodo della dittatura fascista e, attraverso una minuziosa raccolta di documenti e di dettagliate storie di persone, compie una completa ed acuta analisi della cultura e della pratica psichiatrica dell’epoca in Italia.
Il testo è corredato da una ricca bibliografia.