di Girolamo Digilio
In questi tempi difficili, nei quali sembrano affievolirsi le spinte ideali che hanno sostenuto la grande stagione della riforma psichiatrica e insieme allo smantellamento dei servizi pubblici si affermano nuove forme di istituzionalizzazione e di negazione dei diritti delle persone con disagio psichico-sofferenza mentale la figura di Fausto Antonucci resta per tutti noi un punto di riferimento sicuro per il rilancio degli ideali che animarono quella stagione gloriosa ed affrontare le nuove sfide in un contesto sociale e politico profondamente diverso rispetto a quello del secolo scorso. La sua fattiva operosità, la sua profonda coerenza fra il pensiero e l’azione, fra il dire e il fare, hanno caratterizzato la sua capacità di trasformare la realtà ed hanno dato un contributo decisivo al superamento della psichiatria dei manicomi e alla costruzione del nuovo sistema di tutela della salute mentale a Roma e in Italia. Fausto Antonucci poneva al centro del suo interesse l’altro, la sua sofferenza e i suoi bisogni e, rispettandone la diversità, comunicava con lui, lo coinvolgeva con la sua passione trasmettendogli con grande semplicità una concezione del mondo basata sulla possibilità di cambiarlo. Finiva così per offrire una speranza, ma anche un solidale e concreto sostegno, ai sofferenti e ai loro familiari. Ai suoi collaboratori non offriva una carriera, ma una prospettiva professionale basata sulla passione, su valori alti e motivazioni profonde che cambiavano la vita delle persone apredo nuovi orizzonti che andavano ben al di là della medicina convenzionale e degli stereotipati ruoli accademici. Era quindi un maestro vero. Egli inoltre possedeva la capacità non solo di immaginare con grande lucidità il cambiamento possibile, ma anche di realizzarlo concretamente insieme agli altri. Siamo negli anni in cui si sviluppa il movimento che porterà alla promulgazione della legge 180 e quindi alla chiusura dei manicomi e alla faticosa realizzazione di un sistema alternativo di tutela della salute mentale. Nel suo libro “Tra il dire e il fare”, del 1983, egli compie una analisi che è interessante rivisitare per la sua ancora viva attualità ed illustra i suoi obiettivi e la sue prime realizzazioni. Egli descrive “una situazione di grande cambiamento, caratterizzata da: eterogeneità dei gruppi e degli orientamenti, precarietà ed episodicità dei rapporti con il corpo sociale, diversità dei modelli di intervento e della cultura dei singoli operatori, dipendenza per la formazione scientifica e culturale dalle strutture universitarie e private, ancora rigidamente separate dalla rete dei servizi dell’assistenza pubblica”. Egli lavora perciò “per raggiungere maggiori livelli di omogeneità teorica e di intervento e per definire una identità di servizio in cui gli operatori potessero riconoscersi.” Egli inoltre si pone l’obiettivo di “rendere direttamente gli operatori socio-sanitari soggetti di ricerca, di sperimentazione e di produzione culturale facendoli diventare veicoli di scambio culturale, individuale e di gruppo e facilitare le possibilità del cambiamento” facendo emergere attraverso i momenti partecipativi (Consulta socio-sanitaria, Comitati di quartiere, Collettivi e Cooperative) “i bisogni della gente e la formazione di una cultura dal basso”. Compie pertanto “una scelta territoriale iniziale in una periferia romana basata essenzialmente sulla motivazione personale di ciascun operatore”. Va cioè al cuore del disagio sociale della città. L’équipe del servizio di salute mentale, inizialmente costituita da un medico, 2 assistenti sociali e due infermieri, comincia a lavorare sul territorio (la V Circoscrizione, oggi V Municipio di Roma) nel 1974 e vi trasferisce la propria sede nel 1976. Il gruppo, oltre che nell’attività clinica, si impegna nella promozione di una Consulta socio-sanitaria, nell’intervento nelle scuole dell’obbligo, nei rapporti con Sezioni di partito, Comitati di quartiere, Parrocchie, Centri sociali. Egli non ha preclusione per alcuno, ma offre a ciascuno una chance di collaborare e di partecipare alla costruzione di un nuovo assetto dei servizi.
“Per rispondere ai bisogni degli utenti si cerca di offrire un ventaglio articolato di risposte in sostituzione di ciò che la custodia manicomiale ignorava…si mettono a punto servizi e strutture nuove gestite in prima persona o in collaborazione con operatori di altre USL”. Nel 1983, epoca della pubblicazione del libro, egli organizza, praticamente dal nulla, un servizio così articolato: un Centro Terapeutico diurno (Gottardo) in collaborazione con la USL RM 4; una Comunità-albergo a Subiaco, istituita nel 1981 e, dopo due anni , sostituita con una Comunità-alloggio a Setteville di Guidonia, territorialmente più vicina; un Centro di ospitalità a San Basilio aperto 24 ore per l’accoglimento della domanda psichiatrica acuta (emergenza psichiatrica); un Servizio per l’assistenza ai portatori di handicap giovani-adulti; un Servizio territoriale di assistenza ai tossicodipendenti; un Servizio di assistenza ai tossicodipendenti ristretti nel carcere di Rebibbia; un Gruppo di lavoro per l’Ospedale S.M. della Pietà; una collaborazione strutturale con un SPDC (presso l’ospedale San Filippo Neri) per la gestione dei TSO, con una Clinica medica e con una Clinica psichiatrica. “La struttura centrale è l’ambulatorio inteso non come luogo fisico per l’accoglimento delle richieste, ma come momento in cui uno o più operatori si assumono la responsabilità del rapporto con l’utente. Il lavoro di gruppo tende a sostenere e verificare le attività dei singoli operatori, intervenendo nella decodificazione della domanda, nella messa a punto di un progetto terapeutico, nella concettualizzazione e teorizzazione di quanto viene fatto nella pratica quotidiana”. Nelle riunioni di ambulatorio si sostiene “la crescita degli operatori attraverso la socializzazione delle esperienze e delle competenze dei singoli e attraverso un riconoscimento collettivo dei limiti terapeutici, per motivarli al progetto complessivo del Dipartimento. Partendo dai singoli casi andare ad una visione più complessiva sia dei fattori di rischio del territorio in cui si opera, sia dell’ideologia, della politica sanitaria e della prassi operativa del Dipartimento. Questa riunione consente una conoscenza diffusa, anche se superficiale dell’intera utenza a tutto il servizio, il che permette, in caso di necessità, un intervento in qualche modo ragionato da parte di operatori che non sono direttamente impegnati nel caso”. La vita del Dipartimento prevede però anche un coinvolgimento continuo di tutti gli operatori dei vari servizi attraverso riunioni di Dipartimento, gruppi di supervisione, di qualificazione e di ricerca. Fausto Antonucci con la sua lucida visione e la sua passione non solo teorizza, ma realizza così, nell’epoca dei manicomi, la costruzione di un nuovo modello di presa in cura della persona con sofferenza mentale basato su un impegno collettivo a “tutto tondo” di alto profilo non solo tecnico, ma anche umano ed etico: un modello che non può che restare all’apice delle aspirazioni di quanti oggi sono coinvolti nella vicenda della sofferenza mentale.