Telefonata di un padre a un figlio, in tempo di Covid, ospite di una comunità per la cura del disagio psichico.

Di D.F. socio ARESAM

Il poeta Edmond Jabes ha scritto che “noi uomini parliamo attraverso una ferita”. Dalla ferita aperta di mio figlio inizia un dialogo, dove la scoperta dell’altro si fa protagonista nell’imprevedibilità. Ascolto la sua parola che si libera del superfluo, di ciò che la vela e si presenta nella sua concretezza: una parola nuda che offre a me che l’ascolta il volto, il corpo, l’anima nei loro istanti più veri…di sofferenza. È voce che pone domande, chiede aiuto, annuncia debolezza, apre le porte a deserti infiniti, aridi, privi di vita. Devo assolutamente dare delle risposte vere, sincere, di speranza …che la sua vita cambierà. Chiedo conforto anche a quel che ancora resta della mia fede per raccogliere parole di sollievo…ma tutto diventa buio quando mio figlio pone fine alla telefonata citando la frase di un repper che io non conosco: “ …parlo con Dio che ha pianto e mi chiede scusa per quello che mi ha fatto”.
Ciao figlio mio dal tuo papà

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