da Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia. Le parole della medicina. Edizioni AlphaBeta Verlag, 2012. A cura di Maria Grazia Giannichedda
“Ecco quindi che le parole della medicina vengono indagate a partire dal tradimento che il sapere medico ha compiuto nei confronti delle loro etimologie, per rovesciarle in strumenti di strutturazione teorica di questo naturalismo della soggettività che è la scienza moderna. Così la parola “clinica” vede mutare il suo significato da “narrazione della malattia spiegata al letto del paziente” a sguardo oggettivante che espelle la malattia e la morte dagli organismi umani, per lavorare, intervenire, trattare corpi, “manichini pedagogici” sui quali nasce e si sviluppa l’ospedale. E così anche la “cura”, perde l’emisfero lessicale della “preoccupazione”, della “sollecitudine interessata” per diventare “intervento organizzativo”, efficienza tecnica dello sguardo clinico, fulcro teorico dell’ospedale contemporaneo come fabbrica di cura, consenso e malattia.
L’affermazione del sapere medico conduce infine alla risemantizzazione che è anche rovesciamento dialettico di categorie ancor più originarie, di nervature ancora più profonde, dei tradizionali loci antropologici. È in questa prospettiva che il paradigma dell’esclusione dell’altro, con la morte o l’allontanamento rituale, si rovescia nella sua integrazione attraverso la tutela invalidante (ospizio, ospedale, manicomio) e assistenziale (stato sociale) dello Stato liberaldemocratico.
Ma perché la tutela che integra e neutralizza l’alterità si affermi del tutto è necessario che il passaggio alla modernità si compia con la negazione di questa stessa alterità, con diverse tecniche di assimilazione che vanno dalla sua riduzione a corpo (le donne, questo inestinguibile altro dall’uomo incatenato allo “scopo riproduttivo”), alla negazione del corpo (i respingimenti dei barconi del Mediterraneo come annullamento dei corpi dei migranti) e nell’introiezione della colpa (si pensi all’intervento delle etiche religiose nelle questioni bioetiche).
Ed pur è sempre in questa prospettiva di rovesciamento dialettico, nell’egemonia del positivo medico e manicomiale che la follia cessa di essere il fenomeno opaco, non-presente indicato dall’etimo della parola (il follis è un sacchetto vuoto, pieno d’aria) per assumere la veste sinistra del delirio, della deviazione dal solco tracciato dalla norma.”