Psichiatria e giustizia

Riteniamo importante diffondere questo comunicato del Coordinamento Salute e Giustizia:

“Cari Colleghi,

negli ultimi decenni abbiamo assistito al travagliato percorso di riforma che ha portato al trasferimento delle funzioni sanitarie, nei confronti di detenuti e internati, dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale e implicato la storica chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la conseguente istituzione delle REMS (cfr. Decreto-Legge 31 Marzo 2014 n. 52:«Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari»).
I principi di riferimento che hanno ispirato questa riforma sono eticamente ineccepibili e riguardano:

  1. la parità di trattamento tra individui liberi e detenuti o internati,
  2. la realizzazione di una piena collaborazione interistituzionale,
  3. il rispetto della dignità dei detenuti,
  4. la messa in atto di progetti mirati al reale recupero dei soggetti sottoposti a limitazione della libertà personale e il perseguimento della continuità terapeutica.

Lo scarto tra l’ideale, che muove la riforma, e la realtà della sua attuazione, ci impone delle riflessioni, in quanto, come tutti gli scarti tra ideale e reale, presenta delle insidie con le quali istituzioni, professionisti e utenti dei nostri servizi si confrontano quotidianamente.
L’attualità del nostro lavoro ci porta sempre più spesso a lavorare nella cura e riabilitazione di utenti con problemi legati a condotte che portano a provvedimenti legali.
Tali situazioni, senza un’adeguata cornice metodologica ed epistemologica, riattivano nel personale curante i disagi legati ad una questione che intendevamo superata con la legge 833/78 (legge 180).
Il disagio riguarda tutte quelle situazioni in cui, nello svolgere il nostro mandato istituzionale di “cura”, riceviamo ingiunzioni concernenti l’inserimento nei diversi percorsi di trattamento psichiatrico (da SPDC, CSM, cliniche, comunità terapeutiche, ecc.) di persone che hanno compiuto agiti antisociali di cui non abbiamo avuto il tempo di valutare le condizioni psichiche.
Parliamo di persone che hanno agito in stato di alterazione indotta da sostanze psicoattive (alcol o droghe) o che un tempo erano giunte alla nostra attenzione per altri motivi, distinti dalle condizioni che hanno portato all’agito antisociale, ma che, in quanto note al DSM (anche se non in più in cura), vengono scontatamente ritenute di nostra competenza attraverso decisioni e richieste con sfumature decisamente stigmatizzanti.
In altre parole, il reato di una persona rischia di diventare segno inequivocabile di follia e la condotta di una persona viene tout court valutata come un problema psicopatologico.
Come accadeva prima della legge 180, quando la psichiatria interveniva con un ricovero per difendere la società dal folle.
Rintracciare le cause di questa confusione è una ricerca tanto complessa quanto doverosa, in quanto la pericolosità degli effetti che produce sono ben evidenti a noi e alle persone di cui dobbiamo tutelare il diritto alla cura. La stessa confusione riguarda anche chi si trova a dover applicare la legge, non avendo competenza in materia di salute mentale.
Le norme, a tale riguardo sono chiare e forse può esserci utile richiamarle alla memoria.
La legge 180 ha completamente modificato la normativa precedente, riconoscendo il diritto alla libertà del cittadino nei confronti del trattamento sanitario quale deriva dall’ art. 32 della Carta Costituzionale, sostituendo il concetto di “pericolosità” con quello di “tutela della salute pubblica”. Infatti, con l’introduzione del Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.), provvedimento che non risponde alla pericolosità sociale del soggetto, ma all’inconsapevolezza della propria malattia e alla necessità di essere curato, la legge stabilisce in modo preciso le procedure, le condizioni e la durata del TSO che non è più stabilito per decreto del Tribunale, ma disposto dal sindaco quale autorità sanitaria della città.
Il Giudice Tutelare interviene sempre e obbligatoriamente nelle procedure del T.S.O. con funzione di controllo e di garanzia. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è stato introdotto, e dovrebbe essere visto, come strumento di difesa e di tutela dei diritti del cittadino e non come strumento di esclusione dalla società.
La competenza della ‘questione psichiatrica’, infatti, con la riforma introdotta dalla legge 833/78, passava dal Ministero dell’Interno al Ministero della Salute.
Con tale riforma, la pericolosità sociale in quanto tale, ossia non legata a una condizione di acuzie psicopatologica, non è più di competenza psichiatrica: in questo modo, la psichiatria veniva liberata dal fardello del custodialismo, ombra tra le più inquietanti dell’istituzione manicomiale.
Interrogandoci, come clinici, su tale questione, notiamo come gli ambiti della follia e della ‘delinquenza’ non possano essere facilmente sovrapposti: partendo dal dato di letteratura, ormai accertato, che i pazienti psichiatrici non commettono più reati del resto della popolazione, come riportato in diversi studi.
“Andando più nello specifico, Shaw et al. (2006), nella loro ricerca sulle persone con patologia mentale coinvolte in casi di omicidio, fanno riflettere sulla complessità del tema rilevando come il tasso di disturbo mentale possa variare a seconda della definizione utilizzata. La definizione più ampia – una diagnosi di qualunque disturbo psichiatrico nel corso della vita – ha una frequenza di almeno un terzo. Tale dato è maggiore rispetto a quanto si osserva nella popolazione generale (Meltzer, 1995). Sebbene la maggior parte dei condannati, con uno stato mentale alterato al momento del reato o con una storia di contatto con i servizi psichiatrici, avesse ricevuto una diagnosi psichiatrica nel corso della vita, il contrario non era vero. Cioè, la maggior parte degli omicidi con una storia di disturbo mentale non era in fase acuta al momento del crimine e la maggior parte non aveva mai ricevuto interventi di salute mentale, suggerendo che i servizi non avrebbero potuto impedire i loro reati.”
Gli articoli 88 e 89 del codice penale sanciscono la “non imputabilità” o la “pena diminuita” solo per chi “al momento del fatto era per infermità, in tale stato mentale da escludere la capacità di intendere e di volere” o “per infermità, in uno stato di mente da scemare grandemente” la stessa capacità. Al contrario gli art. 87 (stato preordinato di incapacità di intendere e di volere), come gli art. 92 e 93, che riguardano l’ubriachezza e l’effetto di sostanze stupefacenti al momento del fatto reato, prevedono un aumento della pena.

Richiamare queste fondamentali norme, in uno stato di tale confusione, non vuole essere una banalizzazione, ma un appello al ricorso all’appropriatezza diagnostica concernente il nostro mandato istituzionale e alla conseguente affermazione e difesa del giudizio clinico formulato.
Infatti, il piano di azioni nazionale per la salute mentale (PANSM), approvato in conferenza unificata (2014) dal Ministero della Salute, prevede la necessità di prendersi cura in modo prioritario delle situazioni psicopatologiche più gravi, ed in particolare consiglia di concentrarsi su:

  • l’area esordi, esortando i Dipartimenti di Salute Mentale ad organizzarsi per realizzare interventi precoci;
  • l’area disturbi gravi persistenti e complessi (psicopatologie croniche), con l’indicazione di concentrare risorse e competenze dei servizi pubblici nel trattamento delle schizofrenie e delle psicosi affettive e nella prevenzione/intervento precoce delle stesse.

L’altro dato, tristemente noto a tutti noi e ampiamente suffragato dalla letteratura, è la frequenza con cui i pazienti psichiatrici hanno subito abusi o reati. Frequenza ben più elevata rispetto alla casistica in cui gli stessi sono autori di reati e abusi. Di conseguenza, la responsabilità dell’appropriatezza diagnostica e la considerazione che questa riceve in ambito giuridico, come il sapere rimandare alle istituzioni competenti le diverse problematiche, riguarda un asse fondamentale per la tutela della fragilità della nostra utenza.

In conclusione, potremmo ricondurre le origini della confusione tra salute mentale e giustizia ad una nostra relativa “giovinezza” istituzionale, che ci fa ancora eredi psichici della traumaticità dell’istituzione manicomiale, che prevedeva la reclusione a tempo indeterminato di tutto ciò che veniva considerato “follia morale” (J. Falret) dalla cultura dominante: folli, “minorati psichici”, omosessuali, dissidenti politici, ribelli, “delinquenti”, ecc.
Eredi di una mentalità e di un contenitore aspecifico come risposta assoluta a problemi che vanno distinti, valutati, differenziati.
Ciò potrebbe averci indotto a farci carico delle varie “diagnosi”, vaghe etichette usate come definizioni di un’alterità umana indistinta, pericolosa, da allontanare. D’altra parte, il compito altrettanto arduo di applicazione della legge, può fare incappare il legislatore e poi l’esecutore nel rischio di dover collocare rapidamente il problema in un contenitore, storicamente connaturato come ricettore di traumatismi.
Il riferimento al lavoro di Ferenczi (1932) contenuto nel titolo, vuole essere un rimando a quello che accade quando “il linguaggio della tenerezza” che attiene al nostro mandato di cura, viene intruso dal “linguaggio della passione”, che attiene più all’esecuzione non pensata di logiche istituzionali. Ciò induce lo stato traumatico e di impotenza che stiamo attraversando, che forse potremmo superare insieme, attraverso il nostro diritto a curare e recuperando l’ideale che aveva mosso l’attuale riforma: la collaborazione interistituzionale, unica possibilità di integrazione.
E per fare ciò, è necessario non confondere linguaggi e orizzonti diversi e, con perizia, distinguere cosa è cura e cosa è controllo: fare chiarezza sulla distinzione di ambiti e competenze tra Salute Mentale e Giustizia e sulle modalità corrette di attuare una vera collaborazione tra queste due realtà. Solo attraverso questo lavoro di chiarificazione e confronto delle due diverse prospettive è possible garantire ai cittadini una vera giustizia e delle cure effettivamente appropriate.

Il dialogo tra le parti va perseguito come strumento per realizzare una collaborazione realmente integrata tra psichiatria e giustizia: e per tale motivo, vorremmo istituire un tavolo di lavoro.”

 

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