di Girolamo Digilio
Nel ribadire l’affermazione del valore del “welfare status” fin qui realizzato dalle democrazie europee e, al tempo stesso, la necessità di un momento di confronto e di riflessione per renderlo più adeguato alle attuali condizioni dell’uomo nella società e ai suoi bisogni, più equo e più efficiente, vorrei ribadire l’esigenza di dare il dovuto rilievo alla stretta correlazione fra il concetto di welfare status tradizionalmente inteso come sistema di protezione e di aiuto risarcitorio per “eventi avversi” e quello di “welfare nel lavoro” inteso come benessere per la generalità dei lavoratori in quanto autorealizzazione, valorizzazione della persona umana e della sua creatività nonché prevenzione di processi di alienazione e di molti “eventi avversi” per i quali si dovrebbero poi mettere in moto meccanismi di aiuto e di protezione. Non c’è dubbio che nel corso dell’ultimo ventennio queste istanze hanno subito un’ulteriore compressione se non addirittura una vera e propria negazione.
La “deregulation” reaganiana prima, la globalizzazione e il neoliberismo selvaggio poi e, infine, la grande crisi economica ancora in atto, hanno infatti non solo ridotto drasticamente le risorse per il “welfare state” tradizionalmente inteso, ma hanno anche disvelato in pieno i meccanismi che subordinano le fondamentali esigenze dell’uomo alle logiche della produzione, del consumo e del profitto senza regole. Non possiamo così evitare, oggi, un ragionamento di fondo che riguarda il funzionamento del “mercato” del lavoro e la funzione ancillare dell’attuale welfare alle sue logiche. In base a queste logiche si opera una inflessibile selezione attraverso drastici meccanismi di esclusione e/o di espulsione dal sistema che privilegiano la rispondenza alle esigenze della produzione e penalizzano gravemente lo sviluppo delle persone. In ciò non c’è soluzione di continuo fra le varie categorie, a cominciare dai cosiddetti “normali” rispetto agli “svantaggiati”, nelle condizioni di accesso alle varie tipologie del lavoro e per la realizzazione di un vero “welfare” per tutti. Manca il più delle volte la possibilità di compiere scelte compatibili con le proprie attitudini e con le proprie capacità e si è costretti in ambiti che negano l’autorealizzazione e spesso mortificano la dignità stessa della persona. Si tratta di meccanismi strutturali del sistema particolarmente drammatici nei riguardi delle persone “diverse”, portatrici di un supposto “handicap” e comunque di una etichetta. La cosiddetta “flessibilità” e la mobilità del lavoro, da tutti purtroppo accettate in nome della ”competitività” e di un asserito superamento delle ideologie, sono certamente funzionali a quelle logiche mentre sono rovinose per il benessere delle persone ai fini di una serena visione del futuro. I risultati di queste politiche si misurano, oltre che con l’allargamento delle fasce di povertà e delle disuguaglianze sociali, nella preoccupante estensione di fenomeni quali la disoccupazione giovanile e il precariato, ormai preminente nei rapporti di lavoro, causa di malessere e di un diffuso disagio sociale che si concreta in molti casi nella forma di un vero e proprio disagio psichico. Questo fenomeno, che esprime in maniera evidente il fallimento delle attuali politiche del lavoro e del welfare, non è marginale, ma coinvolge ormai larghe masse di popolazione e rappresenta un problema centrale della nostra società. Precarietà, instabilità nel lavoro e nella vita, povertà, malessere e disagio psichico sono processi sinergici che cospirano fra di loro e producono forme sempre più gravi ed estese di esclusione e di impoverimento dell’individuo e della società nel suo insieme. Quella che una volta qualcuno aveva chiamato la “società del benessere” può ben a ragione essere definita oggi la “società del malessere”.
Se vogliamo continuare a credere che il “progresso”, anche quello tecnologico, debba essere messo al servizio del benessere e dell’elevazione culturale dell’uomo e non essere utilizzato quale strumento per l’abbrutimento e l’asservimento delle masse, non possiamo sottrarci alla necessità di una approfondita analisi dei fattori che oggi condizionano negativamente la vita di milioni e milioni di persone e di mettere in moto processi innovativi in grado di ricondurre l’umanità ad una dimensione esistenziale che esalti tutte le sue più nobili potenzialità.
Mi rendo conto delle implicazioni utopiche e della estrema delicatezza di questa riflessione che può mettere in discussione le basi stesse dell’attuale modello di sviluppo, ma non potremo prescindere dall’approfondimento di questi dati se vorremo introdurre elementi di cambiamento in grado di favorire la promozione della persona umana, la sua autorealizzazione e quindi, nei limiti del possibile, gradi di welfare più soddisfacente per tutti.
Certamente non si tratta di andare all’assalto del Palazzo d’Inverno, ma di operare una possibile sintesi che tenga conto delle esperienze positive e negative del secolo passato, degli scenari attuali e, in particolare, della grande crisi in atto che mostra chiaramente i limiti di un sistema. Passare dalla enunciazione dei principi alla formulazione di proposte concrete e sostenibili e di progetti politici sarà la grande sfida del nuovo secolo. Nel buio della crisi sembrano infatti aprirsi nel mondo alcuni spiragli di luce, legati soprattutto ad una più matura e diffusa consapevolezza dei problemi di fondo, attraverso i quali si possono forse intravedere i lineamenti di un movimento che travalica i confini nazionali e che non potrà non svilupparsi in una dimensione di globalità.
Sarà importante esserci da subito, anche se non tutte le nostre idee sono, al momento, sufficientemente chiare.